mercoledì 12 agosto 2015

L’ANGOSCIA DELL’AMICIZIA di Carmen L. Caltagirone - Tratto da " L'amicizia come sacramento"



Una notte ero alla guida della mia auto in compagnia della mia amica Virginia, e, strada facendo, riflettevamo insieme sulla complessità delle amicizie. Virginia era piuttosto depressa, mentre io affermavo che la vita sarebbe più semplice, scevra di complicazioni e indolore, senza rapporti con gli altri. La risposta di Virginia fu immediata e decisa: «Sì, la vita sarebbe più semplice, indolore, ma sterile». Le sue parole esprimevano una fondamentale verità.
Le amicizie sono sempre cariche di dolore, ci confondono, ci spaventano, ci minacciano e ci affaticaņo, ma ci sollevano anche il morale e ci realizzano. E infatti attraverso il dolore che proviamo, nel trattare con gli altri, che rafforziamo il nostro amore l’uno per l’altro e cresciamo come individui. Le vere amicizie sono sempre colme di grazia anche, e talvolta soprattutto, nei momenti più bui. Ciò significa che Dio si serve di questi momenti per parlarci della durata dell’amore e di come, realmente, esso provenga dal cuore di Gesù.
La sofferenza purifica, affina e dà forza alle persone. C’è un importante passaggio nell’Antico Testamento che parla delle cause dell’afflizione: Oltre tutto ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come già i nostri padri. Ricordate quanto fece con Abramo, a quante prove sottopose Isacco e quanto avvenne a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Labano, suo zio materno. Giacché, come li fece passare al crogiuolo per scrutare i loro cuori, così non è che vuole vendicarsi di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli sono vicino (Gdt 8,25-27).
Nell’amicizia si impara il vero significato delle parole, delle promesse e dei simboli, anche nei momenti di afflizione. L’amore vero non è mai facile; noi conosciamo, dall’esperienza di Gesù, che l’amore radicale conduce alla croce. Vivere una vita carica di passione significa, necessariamente, sperimentare la sofferenza.

Le persone appassionate che credono nel mistero pasqūale capiscono che attraverso il dolore c’è crescita e, nella morte, c’è nuova vita. Dio si rivela in modo speciale nell’amicizia quando in essa si attua il mistero pasquale, quando cose già fortemente unite vengono dolorosamente divise, sradicate e scosse per favorire la purificazione e la trasformazione.
A un certo punto della mia vita, mi resi conto quanto il mistero pasquale sia stato effettivo nelle mie amicizie. Ho capito, anche, che la mia fede nel Cristo pasquale mi ha sostenuta nelle sofferenze della vita. Mentre non provo gioia e non desidero il dolore che accompagna sempre l’amicizia, sono grata per la forza che ho di resistere al dolore stesso, di perseverare nella speranza che, dal dolore, provenga la crescita e una nuova vita. Ho pietà di coloro che non conoscono il miracolo del mistero pasquale che opera nei loro cuori.
Dio vuole che il mistero pasquale sia parte integrante nel cammino della nostra vita, perché è attraverso di esso che noi arriviamo al contatto vitale con i piani di Dio per la nostra crescita, nel nostro viaggio verso di lui. Noi possiamo insegnare l’uno all’altro la realtà del mistero pasquale, da come viviamo la nostra vita: così hanno fatto i miei amici per incoraggiarmi ad affrontare le mie pene e soffrire meglio. Io li ascoltavo, perché sapevo che essi sarebbero stati accanto a me, per confortarmi e incoraggiarmi quando soffrivo.
Nella morte noi diventiamo coloro che incarnano Dio per gli altri. E come se il dolore scavasse un segno nei nostri cuori perché Dio vi risieda e splenda, raggiungendo gli altri attraverso di noi.
Pensare all’amicizia e all’amore in termini di sofferenza non è un approccio cinico ma realistico, perché il vero amore deve essere purificato dei suoi sentimentalismi, il vero amore è penetrante e tenace e richiede tutto quello che noi abbiamo e il meglio di noi stessi. Una vera amicizia è qualcosa che ci impegna, qualcosa che ci fa riflettere, valutare e, talvolta, ci fa sopportare le pene più difficili per proteggerla o per rafforzarla. - -
C’e un salutare marchio di dolore nella vera amicizia. E il dolore dell’amare troppo, del conoscere e sperimentare che l’amore è nello stesso tempo difficile e bello, del non essere capiti, dell’osservare l’altro che soffre. Il dolore dell’amicizia può essere causato dalla crescente alienazione o dalla definitiva separazione. Parte del dolore dell’amicizia consiste nel conflitto che spesso esiste tra due persone. Questo può essere molto salutare. Quando due persone hanno un rapporto senza conflitto, forse intenzionalmente evitandolo, ci si deve domandare se sia davvero sincera amicizia. Senza voler augurare conflitti, è importante notare che il conflitto, in un’amicizia, può aiutare a raggiungere realtà molto più profonde. Se due persone stabiliscono una piena amicizia, ciascuna incontra l’altra come una persona completa con una moltitudine di sentimenti, convinzioni, forze e debolezze e in questo intenso scambio, inevitabilmente, nei quotidiani incontri, l’una si «scontrerà » con l’altra. Le vere amicizie sono incessantemente libere e liberanti e, quando c’è disaccordo in un’amicizia, gli individui si sentono liberi di lasciare emergere e sostenere le differenze. Martin Marty, in un interessante libretto intitolato Amicizia, commenta precisamente questa idea:
Essere amici e non arrivare mai al conflitto è probabilmente un segno di apatia; le persone che si interessano profondamente di qualcosa nel mondo sono esposte a entrare in disaccordo e, se esse sono libere, a esprimere il loro disaccordo".
Spesso è precisamente attraverso il conflitto che noi constatiamo la presenza di Dio in un’amicizia. Attraverso lo stress e lo sforzo del conflitto, noi possiamo vedere la mano di Dio che ci sostiene entrambi e che salva l’amicizia. Ci fu un periodo in cui ebbi un conflitto estremamente doloroso con qualcuno che amavo profondamente, e penso che quella sofferenza fosse un necessario processo perché noi due, sopportando, affinassimo e rafforzassimo la nostra amicizia. Io sapevo pure che, alla fine, qualunque fosse stato il risultato, avrei potuto accettare tutto, sicura che Dio avrebbe permesso all’amore di trionfare, e questo mi stava bene.
La nostra amicizia sopravvisse al conflitto e divenne più forte e più bella, anche se non chiederò mai di entrare in conflitto con la persona che amo, perché il dolore è troppo grande. Guardando al passato, ringrazio Dio per i conflitti subiti, per la grazia della perseveranza e per aver intuito che la crescita e il rafforzamento dell’amicizia che ne erano seguiti erano proprio il risultato del conflitto.
In un’amicizia noi non possiamo forzare la crescita, la felicità o la comprensione: possiamo soltanto rimanere fedeli anche nel buio totale, profondamente fiduciosi che il Dio della vita e dell’amore porterà luce e forza.
Chi ha sperimentato una vera intensa amicizia sa che richiede anche il sacrificio. Una delle grandi sofferenze che si devono accettare in un’amicizia è questo genere di tormento: sacrificio di noi stessi, del nostro tempo, delle nostre energie, delle nostre risorse. In un’amicizia c’è il sacrificio di non poter pensare solo a se stessi, di non avere l’ultima parola, di permettere all’altro di avanzare mentre noi restiamo indietro, di dover cambiare per essere amici migliori. La parola «sacrificio» deriva dal latino «sacrum facere» ossia «rendere sacro». Noi rendiamo sacra qualcosa offrendola a Dio. Il sacrificio che Gesù fece di se stesso rese sacra la sua vita stessa. Se noi facessimo davvero dei sacrifici nell’interesse delle nostre amicizie, noi le renderemmo sacre. Un’amicizia fra due persone, che hanno sacrificato se stesse e hanno sopportato insieme la sofferenza, è un’unione santa e, poiché è santa, Dio stesso abita in essa. E rischioso entrare nell’intimità, permettere all’altro di divenire parte di noi stessi, perché significa esporsi alla sofferenza accettando di essere vulnerabili. Eugene Kennedy afferma, nel suo libro Essere amico, che «il rischio di vivere con le possibilità di ferite psicologiche per mano degli amici è inseparabile dall’esperienza che chiamiamo amicizia»”. Il rischio è una parte necessaria dell’amicizia. Più profonda è l’intimità, più grande è il rischio, dal momento che c’è un profondo coinvolgimento di se stessi. Il rischio che implica l’amicizia richiede che si sia aperti a qualsiasi cosa provenga da essa, che rinunciamo al dominio, che abbiamo fede illimitata. La nostra posizione può essere simile a quella di Susanna nell’Antico Testamento: «Ella, piangendo, volse lo sguardo verso il cielo, perché il suo cuore aveva fiducia nel Signore» (Dn 13,35).
Ci sono persone così timorose da rimanere sempre ai margini di un’amicizia, pur sapendo che rinunciando ad agire, per paura dei rischi, rifiutano di vivere. Nel suo libro I quattro amori, C. S. Lewis fa un singolare commento, venato da un filo di sarcasmo, sul come evitare le ferite di un’amicizia:
Amare è essere vulnerabili. Amate qualsiasi cosa e il vostro cuore sarà sicuramente straziato e forse infranto. Se volete essere sicuri di conservarlo intatto, non dovete offrire il vostro cuore ad alcuno, neppure a un animale. Circondatelo accuratamente degli hobbies preferiti e di piccoli lussi, evitategli le grane, rinchiudetelo al sicuro nello scrigno o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – sicuro, misterioso, immobile, senz'aria – esso cambierà. Non verrà spezzato, diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile...
Quando entriamo in profondi rapporti interpersonali, noi abbandoniamo la sicurezza dell’ambiente protetto di cui ci parla Lewis, per entrare in una promessa legata a tutte le sue insicurezze. Quando operiamo all’interno di una promessa siamo sempre vulnerabili e, come Abramo, abbandoniamo tutte le sicurezze, ci aggrappiamo ad essa, confidando sempre in Dio, senza riserve. Se la promessa è costruita su un patto d’amore, non ci smarriremo e anche se sperimentiamo atroci dolori e perfino la morte, alla fine l’amore trionferà.
Le separazioni sono spesso l’aspetto più doloroso di un’amicizia, in quanto il suo ritmo implica la dinamica dell’avere e del lasciare, essendo noi sempre sul punto di riunirci e separarci. La vita è piena di presenze e di addii, di incontrie di separazioni, avendo tutti sperimentato l’indescrivibile tragedia della separazione da coloro che amiamo e la indescrivibile gioia del ritorno.
Le separazioni hanno un influsso notevole sulla nostra crescita come persone e, qualche volta, amiamo meglio se siamo separati, per un certo tempo, da quelli che amiamo. Gesù desiderava che i suoi discepoli lo conoscessero più intimamente quando diceva loro: «E meglio per voi che io parta perché, se non parto, il Paraclito non verrà a voi» (Gv 16,7). Ci sono periodi in cui i nostri amici e familiari devono andare via, perché lo Spirito possa arrivare a illuminare i nostri angoli bui, purificarci e trasformarci in esseri perfetti.
Coloro che amiamo diventano parte di noi. Se noi entriamo pienamente in rapporto con gli altri, noi rinunciamo a una parte di noi stessi, che non è più possibile recuperare e quando coloro che noi amiamo ci lasciano o muoiono, essi portano con sé una parte di noi stessi. Molte delle nostre sofferenze derivano dal fatto che ci addoloriamo per la parte di noi che è morta, senza tener presente che in quella morte c’è trasformazione e quella parte di noi muore proprio perché noi possiamo essere rigenerati.
La storia di Abramo che sacrifica Isacco mi ha sempre colpita, in modo particolare perché mi parla dei sacrifici che sono, al tempo stesso, parte del rapporto e chiave per la nostra crescita spirituale. Pensiamo all’esultanza di Abramo nel ricevere il dono di un figlio, quando, secondo le Scritture, Sara non poteva più averne: la sua gioia era stata così grande che «fece un grande banchetto quando Isacco fu svezzato» (Gn 21,8). Poi arriva il momento della prova e Dio chiede ad Abramo di restituirgli il figlio. Abramo è un uomo buono, ama Dio ed, essendo anche uomo di straordinaria fede, si accinge a compiere ciò che Dio gli comanda. Noi non possiamo immaginare il tormento che agitava il cuore di Abramo mentre stava salendo sul monte con Isacco. Ma Isacco è risparmiato e non morirà sul monte Moria, anche se qualche cosa morirà in Abramo che torna da quell’esperienza trasformato. La sua disponibilità a sacrificare Isacco e l’angoscia che ha sofferto lo hanno purificato. Sul monte Moria non è avvenuto un sacrificio umano e fisico, ma un sacrificio del cuore. Nel dire «sì» al sacrificio di suo figlio, Abramo esprime la disponibilità a sacrificare il suo stesso amore, accetta di staccarsi da Isacco fin dal profondo del suo cuore e di restituirlo a Dio. Non è cosa facile, ma Abramo crede in un Dio di vita e si fida totalmente di lui. In quel sacrificio Abramo santificò la sua vita e quella di Isacco e il suo rapporto con Isacco diventò ancora più sacro, ancora più saldamente radicato nel Dio della vita. In effetti, Abramo era disceso dal monte Moria cambiato, aveva capito che, sebbene Isacco fosse un dono di Dio, ciò non significava che Abramo lo possedesse veramente e potesse disporne a piacere.
Dio ci ha donato diversi Isacco e sono quelle persone meravigliose che sono entrate nella nostra vita, quando forse non le aspettavamo, dando origine a gioie profonde. Dio ci invita alla rinuncia di alcuni nostri Isacco, anche se la nostra capacità di accettare non è all’altezza di quella di Abramo. E come se, a differenza di Abramo, noi salissimo il monte Moria imprecando e lamentandoci, appellandoci a Dio perché cambi le sue intenzioni. In qualche modo, tuttavia, noi sappiamo che quel genere di separazione è un mezzo per crescere nella santità. Per quanto riluttanti, lasciamo partire i nostri Isacco, aggrappandoci alla promessa che lo Spirito Santo verrà.
Un certo vincolo lega coloro che hanno sofferto, in quanto la sofferenza ci attira l’uno verso l’altro, specialmente quando si tratta di sofferenza comune e in questa comunanza di dolore scopriamo l’onnipresenza di Dio. Succede agli alçolisti anonimi, ai divorziati, ai vedovi, alle vedove. E nell’amicizia che noi condividiamo la nostra debolezza e nessuno può arrivare all’intimità con l’altro, senza condividerne le sofferenze. In questa intimità con il debole, il sofferente e l’afflitto, nasce il vero amore che proviene soltanto da Dio: una presenza sentita non soltanto da coloro che sono colpiti dal dolore, ma anche da quelli che nell’intimità partecipano al dolore degli altri.
Più ci avviciniamo a Dio, più profonde sono le richieste che ci vengono rivolte. C’è un breve passo nell’Antico Testamento che ne è la prova: «Dammi il tuo cuore» (Prov 23,26). Dio non chiede niente di meno che i nostri cuori e, naturalmente, può essere molto doloroso e difficile donare il proprio cuore. Piedi di cervo sulle alte vette è un magnifico libretto di Hannah Hurnard. E un’allegoria su una giovane ragazza di nome Much Afraid. Il suo più profondo desiderio è di essere unita intimamente a Dio e pensa di raggiungerlo avendo dei piedi di cerva. Per Much Afraid, avere piedi di cerva vuol dire possedere l’abilità di arrivare agli alti pascoli del cielo, cioè seguire la via che il Pastore ha tracciato per lei. In risposta alla richiesta di Much Afraid di salire gli alti pascoli, il Pastore le dice che «nessuno è ammesso al regno dell’Amore, se non possiede il fiore dell’Amore già sbocciato nel proprio cuore»“. Much Afraid desidera soltanto avere l’amore fiorito nel suo cuore, così il Pastore comincia il cerimoniale:
Il Pastore pose la sua mano sul suo petto, tirò fuori qualcosa, e lo collocò sul palmo della mano. Quando Egli porse la sua mano a Much Afraid, «Qui è il seme dell’amore» disse.
Ella si curvò in avanti per guardare, ma lanciò un gridolino di sorpresa e si tirò indietro. Un seme infatti era posato sul palmo della sua mano, ma esso era forgiato proprio come una spina lunga, appuntita.
«Questo seme sembra molto tagliente» disse timidamente. «Non farà male se tu lo pianterai nel mio cuore?».
Egli rispose gentilmente: «Esso è appuntito e penetrerà velocemente. Ma, Much Afraid, io ti ho già avvertita che amore e dolore vanno insieme, per una volta almeno. Se tu vuoi conoscere l’amore, tu devi conoscere anche il dolore».
Much Afraid accettò la spina nel cuore e molte volte, durante il suo viaggio verso gli alti pascoli, la spina infitta nel cuore lo faceva dolere e palpitare. Quando arrivò alla meta, il Pastore la invitò ad aprire il suo cuore, per vedere che cosa c’era:
Alla Sua parola ella mise a nudo il suo cuore e ne uscì il più dolce profumo che ella avesse mai respirato e riempì tutta l’aria intorno a sé con la sua fragranza.
Nel suo cuore era cresciuta una pianta la cui forma e struttura non potevano essere viste perché era coperta interamente da puri, bianchi, quasi trasparenti fiori, dai quali si sprigionava una delicata fragranza..
Dalla spina appuntita erano sbocciati magnifici fiori. Much Afraid cedette il suo cuore al Pastore e lasciò che il dolore la invadesse, ma il suo dolore si era trasformato in incomparabile gioia.
C’è una lezione per noi in questa allegoria. Mettere a nudo i nostri cuori di fronte a Dio e lasciargli conficcare una spina, è aprire noi stessi all’amore, con tutte le sue agonie ed estasi; è renderci vulnerabili, permettendo agli altri anche di ferirci. Come Much Afraid, noi abbiamo sufficiente fiducia nel Pastore per credere nella sua promessa, che cioè, da quelle spine, come semi piantati nelle nostre vite, sbocceranno poi fiori belli e profumati. Noi dobbiamo essere disposti a pagare il prezzo terribile del dono dei nostri cuori nell’amore reciproco, confidando in Dio in ogni momento. Se noi faremo questo, non solo sperimenteremo la gioia dell’umana intimità, ma anche l’intimità con il Dio dell’amore.
L’amicizia può essere un’esperienza di estasi, ma porterà sempre con sé l’angoscia di una profonda sofferenza. Fra la gioia e il dolore c’è sempre qualcosa di misteriosamente bello e irresistibile: è qualcosa che canta la bellezza dell’amore di Dio.


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